Il concetto di spazio o “ma”

Principio determinante nella comprensione dell’arte giapponese in generale e, dunque, dello haiku 俳句 è quello dello “spazio” o ma 間. Esso identifica, più in particolare, quell’intervallo che, pur separando due elementi, in qualche modo li unisce, essendo indissolubilmente legato ad entrambi. Così, ad esempio, nell’esperienza poetica dello haiku, l’individuo-poeta (lo haijin 俳人) e la realtà circostante sono entità apparentemente distinte, ma che si riducono, in ultima istanza, ad unità nell’inespresso, in quella bellezza naturale che può essere colta solo attraverso l’interazione stessa tra uomo e natura e che trova il proprio fondamento estetico nell’intuizione e nel suggerito. Scrive, in merito, Richard Gilbert:

L’essenza reale del “ma” non può essere codificata con precisione, poiché “ma” non è né una cosa o un oggetto, né una singola qualità, quanto piuttosto l’esperienza di una psicologica inter-esistenza [betweenness, N.d.T.] che si realizza nella tecnica del kire [il “taglio” operato dai kireji](1).

L’essenzialità espressiva e linguistica dello haiku, unitamente al valore semantico del taglio (kire 切れ) in esso presente, diviene veicolo privilegiato per la propagazione del senso di ma, ossia di questo spazio che, lungi dall’essere percepito come mancanza rappresenta, al contrario, l’esaltazione di ciò che è stato scritto e di ciò che, invece, viene appena suggerito. In altri termini, il contesto poetico e naturalistico inespresso che fa da sfondo al componimento è importante quanto le parole impiegate dal poeta, se non di più, come nella pittura a inchiostro sumi-e 墨絵, dove il il fascino maggiore non risiede nelle linee tracciate dall’artista, ma nel bianco del foglio, in quel vuoto da cui trae origine ogni cosa.
Si legga, ad esempio, il seguente haiku, a firma del Maestro Matsuo Bashō (1644-1694):

物言えば唇寒し秋の風
mono ieba kuchibiru samushi aki no kaze

dicendo qualcosa
le labbra si fanno fredde –
vento d’autunno

Il fascino profondo di questo scritto non giace, a conti fatti, in ciò che le parole descrivono, quanto piuttosto in quella sospensione – al contempo emozionale e di significato – che viene a crearsi proprio attraverso la valorizzazione di quel “vuoto” che crea uno iato tra il secondo e il terzo ku 句. Ma incarna – qui, come nella maggior parte delle opere dei grandi Maestri – una bellezza senza forma, che non può essere espressa mediante un processo descrittivo o rappresentativo in senso stretto, ossia una bellezza priva di spessore temporale e spaziale, che trascende al contempo i confini cultuali e dell’estetica tradizionale occidentale:

Ma è l’abisso che solo l’istinto può superare. Non è possibile prevedere quando e sotto quali sembianze esso apparirà. Ma si nasconde al di là di ogni controllo umano e di qualsiasi operato; è un vuoto eloquente che, tuttavia, non può essere tradotto a parole (K. Hasegawa).(2)

A conferma dello spessore non soltanto estetico, ma umano ed emozionale, del valore proprio di ma è anche la sua origine etimologica e ideogrammatica. Esso era, infatti, composto, originariamente, dall’unione del carattere tsuki 月 o “luna” (poi sostituito da hi 日, “sole”) con l’ideogramma mon 門 (“cancello”) ed esprimeva l’immagine dei raggi lunari che, attraverso una fessura, illuminano il viale d’ingresso segnato dai cancelli shintoisti, dando così forma a due aspetti essenziali della dimensione spaziale: quella oggettiva dello spazio reale, e quella soggettiva, data dalle suggestioni o dalla percezione individuale dell’ambiente stesso (3). In questo modo, la dimensione “statica” della realtà in cui è calato l’uomo si arricchisce di una nuova prospettiva, quella percettiva di consapevolezza degli accadimenti e dell’intima e indissolubile correlazione tra le cose (mono 物).
L’atmosfera generata da questo “spazio”, che dunque non rappresenta il vuoto o, meglio, il “nulla”, ma il principio unificatore che lega a sé tutte le cose, ha influenzato tutte le forme d’arte del Paese del Sol Levante, dall’ikebana 生け花 al suibokuga 水墨画, dalle discipline marziali alla letteratura e alla poesia. Chiara ed eloquente manifestazione del ma è, ad esempio, la seguente waka 和歌, composta da Saigyō Hōshi nel XII secolo:

水のおとは さびしき庵の ともなれや みねの嵐の たえまたえまに

mizu no oto wa / sabishiki io no / tomo nare ya / mine no arashi no / tae-ma tae-ma ni

rumore d’acqua –
è ora il mio unico compagno
in questo viaggio,
tra un vuoto e l’altro
della tempesta montana(4)

Il valore autentico del ma non si sviluppa, peraltro, nell’individualità dell’atto creativo, quanto piuttosto nella relazione con un’entità “altra”, nel legame che è sempre presente tra il poeta e il lettore e che fa di quest’ultimo una voce indispensabile al compimento del significato ultimo dello haiku:

Colui che legge uno haiku è essenziale per lo sviluppo del ma. Questa persona, infatti, dev’essere in grado di percepire il ma e il senso di kokoro del poeta. Uno haiku non viene completato dal suo autore. Questi crea solo metà del componimento, laddove la restante metà è chiamata ad attendere l’intervento del giusto lettore (K. Hasegawa).(5)

Note:
1. R. Gilbert, Haiku – Take Five Brilliant Corners, in Frogpond, Vol. 32:3, Haiku Society of America, 2009, p. 32.
2. K. Hasegawa, in R. Gilbert, op. cit., p. 33.
3. Cfr. G. Nitschke, Ma: Place, Space, Void, in Kyoto Journal n. 8, Autunno 1988, pp. 33-39.
4. W. LaFleur, Saigyo and the Buddhist Value of Nature, Part II, History of Religions, Febbraio 1974, p. 126.
5. K. Hasegawa, in R.D. Wilson, Study of Japanese Aesthetics: Part I The Importance of Ma, in Simply Haiku, Vol. 8, n. 3, Inverno 2011.

Articolo originariamente pubblicato su Cinquesettecinque.com il 19 maggio 2016.

Immagine: Taikō Josetsu, Luna sopra un cancello di arbusti, XV secolo.

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