Lo haiku

GUADANDO IL FIUME

Per uno studio coerente ed unitario della poesia haiku, a cura di Luca Cenisi (estratto dalla versione originale del 20 novembre 2013).

1. Premessa

Il presente documento nasce dall’esigenza di diffondere regole chiare e precise sulla poesia haiku 俳句 in lingua italiana. Numerose sono, infatti, le “scuole di pensiero” che esprimono idee e concezioni in materia spesso profondamente divergenti se non, addirittura, contrastanti, alimentando, così, solo ulteriore incertezza e confusione in quanti si accingono ad apprendere o ad approfondire quest’arte letteraria. Tale alone di “destabilizzante concettualismo” è peraltro esasperato dalle miriadi di Gruppi haiku aperti su Facebook e sui principali social network, ove gli amministratori pubblicano “Manifesti” e documenti programmatici quasi sempre “copiati-e-incollati” da altri gruppi. In tal modo, gli errori “alla fonte” si riverberano, a cascata, all’interno dei vari gruppi.
I principi e le regole sotto riportati si fondano non su ricostruzioni personali, bensì su documenti storici, trattati e saggi scritti da Maestri haiku, la cui autorevolezza è stata unanimemente riconosciuta nel tempo. Tra tutti, si citano: Matsuo Bashō (1644-1694), Masaoka Shiki (1867-1902), Seki Ōsuga (1881-1920), Kawahigashi Hekigodo (1873-1937), Takahama Kyoshi (1874-1959) e Kuki Shūzō (1888-1941).

Lungi dall’avanzare alcuna pretesta di esaustività, il presente documento intende, comunque, costituire un utile vademecum per quanti – neofiti o haijin di comprovata esperienza – desiderano trovare omogeneità di contenuti e coerenza storico-esegetica.
Le considerazioni qui riportate costituiscono,dunque, i principi-guida della Scuola Haiku Yomichi.

2. Una definizione di haiku

Lo haiku è un componimento poetico di origine giapponese composto da tre versi non rimati diciassette sillabe, disposte secondo lo schema 5-7-5(1).
Deve contenere un richiamo (diretto o mediato) alla stagione dell’anno in cui è stato composto o alla quale fa riferimento (kigo 季語, ossia “parola della stagione”) e uno “stacco” (kire 切れ) atto a creare una giustapposizione d’immagini o una cesura, mediante l’impiego di kireji 切れ字 (“carattere che taglia”).

NOTA: È bene ricordare che lo haiku tradizionale giapponese non è strutturato in tre versi distinti, ma si presenta su un unico rigo di composizione, laddove il distinguo tra le parti si realizza mediante l’uso del kireji ed un computo metrico in on 音 o morae (l’unità fonetica di base, assimilabile, per approssimazione, al nostro concetto di sillaba).

3. Il riferimento stagionale

Uno haiku deve contenere un richiamo, diretto o mediato, al suo periodo di stesura. Più in particolare, dev’essere presente il riferimento a una delle quattro stagioni (haru 春 o “primavera”, natsu 夏 o “estate”, aki 秋 o “autunno” e fuyu 冬 o “inverno”). All’interno del saijiki 歳時記 o “almanacco degli avvenimenti annuali”(2) giapponese esiste poi un quinto periodo, il “Nuovo Anno” 新年, che racchiude una serie di termini stagionali specifici. In Italia, tuttavia, esso viene comunemente inglobato all’interno della stagione invernale(3).
Il riferimento stagionale può presentarsi come “tema stagionale” (kidai 季題) o come “termine stagionale” (kigo).
Il kidai è quell’espressione (fraseologica o terminologica) che delinea il contesto naturalistico-temporale dello scritto (ad esempio, “la raccolta dei narcisi”), indicando così un “tema” generale, un aspetto stagionale relativamente ampio, suscettibile di ulteriore dettagliamento ad opera di termini o locuzioni più specifici (come “narciso”, “fior di maggio”, ecc.).
La kigo (o “parola della stagione”) è, invece, quel termine o quella locuzione che identifica, con alto grado di specificità, un dato periodo dell’anno.
Si può dunque affermare, con le dovute approssimazioni, che tra kidai e kigo intercorre un rapporto di “genere a specie”, laddove il primo incarna un “tema stagionale” o una “famiglia” di kigo. È necessario tenere sempre ben presente il distinguo che – seppur sottile e, di prassi, quasi mai rilevato – possiede un certo interesse storico e pratico.
Il riferimento stagionale, da tradizione haikai 俳諧, era generalmente collocato all’interno del primo o del terzo verso dello scritto. Nei secoli tale regola ha finito con il cedere il passo ad un suo uso più libero, sicché è possibile leggere opere di grandi Maestri che collocano la kigo all’interno del rigo mediano.
La Scuola Haiku Yomichi non pone alcuna restrizione al riguardo, avendo cura soltanto di rimarcare la necessità di un richiamo alla stagione dell’anno, sotto forma di kigo/kidai.
Non ritiene invece possibile ammette, come regola generale, l’uso del cosiddetto “piccolo kigo” che, seppur apprezzabile sotto un profilo squisitamente concettuale (in particolare, per il parallelismo tra lo scorrere delle stagioni e il passare delle ore all’interno della singola giornata), snatura in misura rilevante la sostanza dello haiku. Come affermato dal Maestro haiku Seki Ōsuga (1881-1920), infatti, «il crescente interesse verso la poesia haiku si risolve, sostanzialmente, nell’esegesi della tematica stagionale all’interno della letteratura haikai. L’interesse per il tema stagionale, in altre parole, reca un sentimento di illuminazione simile al Nirvana. L’atmosfera stessa dello haiku nasce da questo interesse […]. In quest’ordine di idee, il richiamo alla stagione è un elemento imprescindibile, che non può essere omesso nella costruzione di una poesia»(4). La kigo è parte stessa dell’esperienza haiku e non un mero artificio letterario imposto dalla tradizione. Di più, gli elementi naturalistici adottati come kigo non “rappresentano” il tema stagionale, ma sono essi stessi il tema, nella misura in cui le loro qualità e caratteristiche riflettono le qualità e caratteristiche di una data stagione: così, la magnolia non simboleggia la primavera, ma è la primavera, poiché il suo ritmo di nascita, crescita e maturazione è così intimamente legato al ciclo temporale intercorrente tra l’inverno e l’estate da non possedere altra valenza che quella propria di tale stagione, grazie ad un processo di “assorbimento” simbolico che implica, suggerisce e associa questo tipo di fiore alla primavera.
Per le stesse ragioni, non si ammette l’uso del cosiddetto “kigo misuralis” o di altri espedienti letterari assimilabili.

NOTA: Il termine kigo è piuttosto recente e risale al XX secolo. Esso venne coniato dallo stesso Seki Ōsuga nel 1908, a indicare esplicitamente quelle parole atte a creare un collegamento diretto tra poesia e periodo stagionale. Parimenti, il termine kidai (o “tema stagionale”) deriva dall’attività teoretica di Kawahigashi Hekigoto che, nel 1907, lo applicò alla stesura di componimenti haiku. Prima di queste date e, in particolare, durante il periodo Edo, si riferiva semplicemente al termine ki 季 (“stagione”) o all’espressione ki no kotoba 季の言葉 (“parola della stagione”).

4. Il kireji

Uno haiku, per tradizione, deve prevedere, all’interno della propria struttura, uno “stacco” (kire) o cesura atto a dividere l’opera in due emistichi giustapposti. Tale stacco viene formalizzato dall’utilizzo di determinati parole (kireji) che, collocate in chiusura di verso o al suo interno, “spezzano” il flusso di pensiero del lettore, stimolandolo a ricercare il collegamento tra le due parti dell’opera così createsi. Data l’assenza di un corrispondente occidentale ai kireji (ya や, ka か, kana 哉, –keri けり), è ormai prassi comune adottare in loro vece i segni d’interpunzione (virgola, punto, due punti, trattino, ecc.).
La Scuola Haiku Yomichi ritiene ammissibile l’uso dei segni interpuntivi, in quanto propri del nostro patrimonio linguistico. In risposta a quanto sostenuto da alcune scuole di pensiero che considerano il loro impiego una “violazione” dei canoni tradizionali, si desidera evidenziare come già adottare una struttura in tre versi e diciassette sillabe (anziché un unico rigo verticale e diciassette on) costituisce un allontanamento dalle regole. In tale senso, i componimenti occidentali rappresentano, né più né meno, un adattamento linguistico dello haiku tradizionale giapponese; è, dunque, logico presumere che essi debbano sottostare, per loro stessa natura e definizione, alle regole lessicali e grammaticali dell’idioma di destinazione, nel caso di specie l’italiano.
La cesura posta all’interno di un verso (di regola, il secondo) prende il nome di chukangire.
Non si condivide la prassi di segnare il kireji mediante l’uso della maiuscola all’inizio del verso successivo, anche qualora il rigo precedente non si concluda con il punto. È infatti convincimento della Scuola che uno haijin 俳人 italiano debba rispettare le regole lessicali e grammaticali della propria lingua.
Si tenga sempre a mente che lo haiku italiano è un adattamento dello haiku giapponese e che determinati aspetti della lingua di origine, come appunto il kireji, non possono essere trasposti con assoluta fedeltà nella lingua di destinazione.
È ammetto anche l’uso di kireji terminologici e non segnici, allorquando, nel contesto generale dello scritto, la parola scelta mostri una solida pregnanza fonetica o concettuale.

NOTA: nella tradizione haikai, il “taglio” doveva comparire, di regola, al termine del primo o del secondo ku 句, così da consentire ai ku finali di presentare un’immagine associativa, comparativa o di contrasto con quanto detto in precedenza. Se posto alla fine del terzo ku, invece, il kireji svolge una funzione di enfatizzazione o riverbero simile all’eco, riportando il lettore all’inizio dello haiku e segnando, così, un percorso circolare di comprensione poetica.

5. Il conteggio sillabico

La Scuola Haiku Yomichi ammette sia un conteggio sillabico di tipo ortografico che un conteggio metrico, sebbene prediliga il secondo.
Per quanto scontato, non è possibile scrivere correttamente senza aver preventivamente acquisito una buona preparazione in materia di grammatica e prosodia. Per questo motivo, raccomando la lettura di un buon manuale di metrica, come l’opera La metrica italiana di Pietro G. Beltrami (Ed. Il Mulino), La metrica italiana contemporanea di P. Giovannetti e G. Lavezzi (Carocci), Breve guida alla metrica italiana di G. Sangirardi e F. De Rosa (Sansoni) o altre opere più recenti.

6. La componente naturalistica

Uno haiku possiede sempre una componente naturalistica riferita sia alle singole manifestazioni della realtà empiricamente intesa, sia agli accadimenti umani che direttamente s’intrecciano con essi, riproducendo, con spontaneità, immediatezza e assenza di pregiudizi e preconcetti, ciò che la natura stessa rivela, in linea con il principio zenista della quiddità, dell’essenzialità onnicomprensiva del quotidiano.

7. Il non-dire

Un buon haiku dev’essere capace di esprimere un messaggio profondo attraverso il minor numero possibile di parole dettaglianti. Questa qualità è detta yohaku 余白 (“dimensione vuota”) od omissione. Nella pratica poetica, essa si manifesta attraverso un uso sporadico di pronomi personali, avverbi e aggettivazioni, nonché mediante l’impiego di un lessico semplice, immediato e non artificioso. Usando le parole di Seki Ōsuga si può, cioè, affermare che «noi siamo in grado di comprendere il mondo della creazione solo quando siamo sinceri e umili nei confronti della natura, quando siamo liberi da ogni paura, quando annulliamo ogni distanza tra noi e la natura stessa, quando non ci abbandoniamo a inutili fantasie o non cadiamo in intellettualismi di sorta».

8. L’essere “qui e ora”

Uno haiku deve riferire alla realtà vissuta dallo haijin, al suo presente. Prendendo a prestito le parole del Maestro Matsuo Bashō, infatti, è possibile affermare che «lo haiku è semplicemente ciò che sta accadendo in questo luogo, in questo preciso momento». Tale requisito riflette, in buona sostanza, l’idea Zen secondo cui ogni cosa assume nitore solamente quando il pensiero procede, di pari passo, con il moto perpetuo dell’”attimo”, in sincronia e senza tentennamenti.

9. L’annullamento dell’”io”

Uno haiku deve essere in grado di produrre una sorta di “annullamento dell’io” del suo autore, ovvero reprimere, pur nel rispetto del “qui e ora”, ogni richiamo diretto alla persona dello haijin, ogni sua declinazione caratteriale e “monadica” che possa adombrare lo spirito dello haiku(5).
Prendendo in prestito le parole del semiologo Roland Barthes, si può dire, cioè, che «il tempo dello haiku è senza soggetto: la lettura non ha altro ‘io’ se non la totalità degli haiku di cui questo ‘io’, per una rifrazione all’infinito, non è che il luogo di lettura»(6).
Lo haiku stesso, d’altro canto, presuppone un’esperienza sensoriale “immediata” della natura (i cui tre elementi caratteristici, ossia il “dove”, il “cosa” e il “quando” si fondono armoniosamente nell’estetica del fūryū 風流), laddove «la differenza tra soggetto e oggetto è “trascesa” poiché non vi è né un soggetto percipiente, né un oggetto percepito, ma la loro relazione»(7).

10. L’estetica dello haiku: il fūryū

Per La Scuola Haiku Yomichi è di fondamentale importanza attenersi alla via del fūryū per riuscire a cogliere l’essenza profonda dello haiku.
Il fūryū rappresenta quel “cammino” di ricerca, al contempo poetica ed esistenziale, che procede per successivi gradi di affinamento, gradi che la tradizione ha identificato nel rizoku 俚俗 (“distacco”, “romitaggio”), nel tanbi 耽美 (“immersione estetica”) e nello shizen 自然 (“natura”)(8).
Il rizoku rappresenta l’allontanamento dell’individuo-poeta (il fūryūjin 風流人) da tutto ciò che è mondano, superficiale e “vacuo”. Il questa fase, lo haijin acquisisce una certa sobrietà nei suoi atteggiamenti e opera una più intima conoscenza di sé.
Il tanbi è, invece, il successivo sviluppo del senso estetico da parte del poeta, conseguibile solo attraverso una sua totale fusione con la realtà circostante ed una sua attenta e sincera osservazione.
Lo shizen, che in un certo senso già “racchiude” i due precedenti gradi di maturazione personale, dà loro compimento, confermando la reciproca interdipendenza di natura ed arte, le quali concorrono al medesimo fine, ovverosia l’armoniosa riscoperta del sé come presupposto dell’illuminazione (satori).
Per la Scuola Haiku Yomichi, dunque, un buon haiku dev’essere lo specchio del cammino intrapreso dallo haijin attraverso le tre “fasi” (rizoku, tanbi, shizen) che sorreggono l’esperienza del fūryū. Dev’essere, inoltre, in grado di accogliere le differenti forme estetiche che ne derivano, ossia:

  • il sabi 寂, cioè la bellezza solitaria che trova espressione in un linguaggio semplice ed immediato, contrapposto allo hanayaka 華やか (la bellezza viva e appariscente delle cose mondane);
  • lo hosomi 細身, ovvero quella “sottigliezza” contemplativa indispensabile per cogliere l’essenza veridica della realtà, diametralmente opposta alla grossolanità o futoi 太い degli atteggiamenti comuni;
  • l’ogosoka 厳か o “solennità” dell’esperienza sensibile, in antitesi a quel senso del ridicolo okashii おかしい che spesso sfocia nel dissacrante o nel grottesco.

Dalla disposizione poetica dello haijin in relazione alle suddette forme, pertanto, possono emergere diversi stati d’animo e diverse manifestazioni di senso estetico, tra cui:

  • wabi 侘 (“solitudine”), modello estetico basato su uno stile sobrio e frugale, che predilige l’irregolarità delle forme alla perfezione e alla simmetria. Esso esprime, inoltre, una bellezza calma e austera, da assaporare nella quiete solitaria;
  • shiori しをり (“delicatezza”), il fascino che dai versi s’irradia verso il lettore, andando oltre la mera parola scritta, avvolgendo ogni cosa in un vago e indistinto alone di compassione ed “empatia”;
  • makoto 誠 (“verità”), l’indice della pienezza poetica e spirituale dello haijin che, calato nella natura, diviene un tutt’uno con essa;
  • yūgen 幽玄 (“profondità e mistero”), la bellezza vivida, sottile e profonda di ciò che, indistinto, procede oltre la comprensione mentale;
  • karumi 軽み (“leggerezza”), la bellezza poetica riflessa nella sua semplicità, libera da preconcetti;
  • mono no aware 物の哀れ o, più semplicemente, aware 哀れ (“misero”, “compassionevole”), ossia la capacità di lasciarsi “attraversare” dalle cose del mondo.

11. Altre notazioni formali

La Scuola Haiku Yomichi non ritiene opportuno che lo haiku possieda un titolo (di per sé irrilevante, in presenza di un buon componimento), né un impianto rimico volontario. L’inserimento di rime, infatti, contrasta con i principi di naturalezza e spontaneità compositive propri di questo genere poetico.
Lo haiku deve inoltre prediligere il non-detto al detto, il vuoto al pieno, e ciò si realizza con maggior vigore allorquando l’uso di articoli, preposizioni e congiunzioni è ridotto allo stretto necessario.
Si tengano sempre a mente le parole di Miyamoto Musashi (1584-1645) espresse nel celebre Gorin no Sho 五輪書: «il vuoto è ciò che non possiamo conoscere. Ma il vuoto non significa che ci troviamo dinanzi al nulla. Chi conosce il pieno conosce anche il vuoto.»

12. Uno haiku senza kigo non è un senryū

Diversamente da quanto comunemente affermato, si desidera rimarcare come uno haiku privo di riferimento stagionale non possa essere etichettato automaticamente come senryū 川柳. Il senryū, infatti, pur essendo un componimento poetico strutturato in tre “versi” e diciassette “sillabe”, proprio come lo haiku, è al contempo “una sagace penetrazione nel mondo della natura umana, debole e imperfetta, ma anche tenera e, a volte, commovente”.(9).
È necessario tener sempre ben presente questa distinzione, onde evitare di cadere in evidenti errori concettuali.

13. La modernità della tradizione

Il motto dentō no gendai 伝統の現代, ossia “la modernità della tradizione”, proprio della Scuola Yomichi 夜道 (fondata da Luca Cenisi nel 2012), intende sottolineare la profonda attualità del genere haiku e le sue enormi potenzialità espressive in relazione al periodo storico in cui viviamo.
Parlare di haiku, infatti, non significa semplicemente “parlare di fiori e di uccelli”, come sosteneva Takahama Kyoshi nel suo celebre Kachofūei 花鳥諷詠, bensì dell’uomo che insieme alla natura, forma ieri come oggi) un’unica entità indivisibile (→ kikan 季感).
Le regole compositive “classiche” (tre versi o “momenti” e diciassette sillabe presenza di kigo e kireji, ecc.) non rappresentano, dunque, una catena, un fardello storico che rischia d’imbrigliare la creatività poetica dello haijin moderno, ma un solido fondamento culturale a partire dal quale è possibile elaborare nuove teorie e nuovi modi di “fare haiku”.
La Scuola Haiku Yomichi, pertanto, resta salda nel proprio intento di preservare i crismi della tradizione, rileggendoli alla luce delle moderne esigenze letterarie e del contesto socio-economico in cui è calato ciascun individuo, convinta che lo haiku abbia ancora molto da dire e da insegnare, sia alle generazioni presenti che a quelle future.

NOTE:

(1) La scelta dei numeri 5 e 7 non è casuale. Nella tradizione poetica giapponese, infatti, la ripetizione o l’alternanza di tali cifre rispecchia, rispettivamente, la regolarità o l’irregolarità delle manifestazioni naturalistiche, ossia l’armonia e la disarmonia che, in simbiosi con l’uomo, costituiscono i due momenti fondamentali del pensiero taoista. Mentre il “5” ricorre con una certa frequenza nei vari ambiti culturali nipponici (le “5” virtù, i “5” Segni celesti, i “5” Elementi, le “5” Insegne, ecc.), il “7” rappresenta, sempre secondo la tradizione, la “centralità totale”, ovverosia la giunzione delle molteplici declinazioni esistenziali in un’unica entità perfetta ed immutabile. Al di là di questo, è comunque storicamente provata la miglior resa fonetica dello schema 5-7-5 rispetto ad altre forme e modelli, in specie quelli di “nuova tendenza” proposti a cavallo dei secoli XIX-XX da Kawahigashi Hekigodo e altri poeti.

(2) I termini riferiti a ciascuna stagione dell’anno vengono, tradizionalmente, suddivisi in categorie prestabilite: Fenomeni stagionali, Cielo, Terra, Eventi e vita umana, Paesaggi/colori, Fauna e Flora.

(3) Alcuni saijiki contemplano anche un’apposita sezione dedicata a termini privi di collegamento stagionale (muki 無季).

(4) Ōtsuji (Seki Ōsuga), Otsuji Hairon-shu (Otsuji’s Collected Essays on Haiku Theory), Toyo Yoshida, Tokyo: Kaede Shobo, 1947, pp. 11-12.

(5) Emblematica, in tal senso, l’affermazione di Seki Ōsuga secondo cui «[solo] quando il rapporto tra soggetto e oggetto perde di significato, possiamo fare esperienza del più elevato momento estetico» (da Otsuji, op. cit., p. 4).

(6) Roland Barthes, L’impero dei segni, trad. it. di M. Vallora, Einaudi, Torino, 1984, p. 71.

(7) Daniela Liguori, L’influenza del pensiero orientale in Rainer Maria Rilke, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Palermo, Dip. di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi, A. A. 2003/2004, p. 163.

(8) In tal senso, si legga l’opera del Maestro Kuki Shūzō, Fūryū ni kan-suru ikko satsu del 1937.

(9) Valeria Simonova-Cecon, Il senryu, in Haijin Italia n. 9 del 2013, p. 2.