Lo Zen e lo haiku

Uno studio sull’opera di Shin’ichi Hisamatsu, Zen and the Fine Arts, New York, Kodansha America, 1971, pp. 400.

Un contributo fondamentale alla comprensione dell’estetica dello Zen nelle arti – e nella poesia haiku, in particolar modo – è dato da Shin’ichi Hōseki Hisamatsu (1889-1980), filosofo, studioso e monaco Zen di tradizione Rinzai, già allievo di Kitarō Nishida (1870-1945).
Nella sua opera più famosa, Zen and the Fine Arts, Hisamatsu fa il punto dei suoi studi sull’estetica di matrice Zen, i quali lo avevano portato ad affermare che tutte le arti giapponesi ispirate ai principi zenisti dovessero possedere, per rispondere autenticamente alla dottrina, a sette valori chiave, ossia il fukinsei 不均整 (“asimmetria”), il kanso 簡素 (“semplicità”), il kōko 考古 (“austera dignità”), lo shizen 自然 (“naturalezza”), lo yūgen 幽玄 (“profondità e mistero”), il datsuzoku 脱俗 (“distacco”) e il seijaku 静寂 (“tranquillità”).

È fuori di dubbio che Hisamatsu, perfettamente consapevole che la vera qualità dello Zen risiede al di là delle mere apparenze e dei formalismi, abbia dato un contributo fondamentale alla comprensione delle molteplici influenze dello Zen nella poetica dello haiku. Lo studioso contemporaneo Jens Hvass commenta così il suo primo incontro con l’opera di Hisamatsu (Om Zen-æstetik, 1999):

Dopo molti anni passati a decodificare la tradizione estetica giapponese, le caratteristiche proposte da Hisamatsu rappresentano, a mio avviso, la chiave di volta per un’autentica comprensione dei valori estetici dello Zen.

Di seguito verranno analizzate una ad una le sette caratteristiche di cui sopra. Si tratta, in verità, di qualità estetiche che emergono dalla concomitante presenza della mente risvegliata dell’artista (mente intesa come condizione della mente cosciente e dello spirito del kokoro 心) e dal processo creativo, il quale deve conformarsi alle direttrici proprie del fūryū 風流 così come approfondite in altri miei articoli.

L’irregolarità (fukinsei)

Si tratta di un carattere fondamentale di qualsiasi arte giapponese, compreso lo haiku. Con il termine fukinsei si è soliti definire un’arte non più vincolata alle convenzioni estetiche della simmetria e della regolarità. L’artista è, dunque, libero di seguire l’evoluzione naturale delle forme, laddove a dominare la struttura (anche poetica) sono le qualità intrinseche della spontaneità e della casualità (non qui intesa come mero slancio di fantasia, ma come assecondamento dei mutamenti della realtà circostante e, dunque, come adattamento consapevole e sincero al qui e ora).

La semplicità (kanso)

La semplicità del prodotto artistico, che riflette lo stesso processo creativo, immediato, veridico e privo di promiscuità. Il miglior equilibrio e la più profonda armonia estetica vengono, infatti, generati da un percorso artistico dove domina la semplificazione, la riduzione all’essenziale (vedi, in tal senso, il carattere dell’omissione e la “dimensione vuota” dello yohaku 余白). L’uomo che si muove sul piano della “mondanità” tende quotidianamente a complicare, rielaborare ed appesantire le cose, aggiungendovi considerazioni e valori del tutto superflui. Similmente, nella poesia occidentale, la tendenza è quella di inserire nel testo digressioni, artifici retorici o espressioni ampollose al fine di provocare stupore e apprezzamento, inconsapevoli del fatto che la vera ricchezza deriva dal procedimento esattamente opposto, ossia dalla semplificazione e dalla destrutturazione. Scrive in tal senso Garr Reynolds (Presentation Zen, 2008):

Le arti dello Zen giapponese ci insegnano che è possibile esprimere una grande bellezza e veicolare un messaggio potente attraverso la semplificazione. Lo Zen non parlerà, forse, espressamente di un “accrescimento nella semplicità”, ma proprio questa idea permea [di fatto] ogni forma d’arte ispirata allo Zen.

Parlando di kanso, d’altro canto, lo stesso Hisamatsu afferma che «si tratta, in breve, di essere scarno e non ingombrante».

L’austera dignità (kōko)

Kōko esprime il fascino di ciò che è maturo e ormai esposto alla patina del tempo, a ciò che è secco, essenziale, “ruvido”, come rimarcato da Hvass:

Kōko sono le cose graffiate, incrinate, inaridite dal vento, segnate, intaccate, alterate, scricchiolanti, segnate dall’età, tarlate.

Un esempio di kōko è il pino antico, spogliato dal vento, dalle tempeste e dalla neve, ma che nonostante le avversità resta in piedi nella sua maestosità. Kōko è, dunque, una delle più nitide manifestazioni dell’estetica Zen, legata ai canoni del wabi 侘 e del sabi 寂.

La naturalezza (shizen)

L’estetica dello shizen implica, in buona sostanza, l’assenza di vincoli ed intenzioni. Secondo Hisamatsu, infatti, «la naturalezza emerge quando l’artista penetra così profondamente in ciò che sta creando da cancellare ogni sforzo consapevole, ogni distanza [tra lui e la sua opera].»
La naturalezza non è, ovviamente, impeto sfrenato, ma l’esito di un cammino di riscoperta che segue le tre fasi del fūryū e che presuppone, dunque un certo impegno o, meglio, una certa “pratica” (Reynolds):

Occorrono tecnica e forma, oltre ad una conoscenza delle “regole”. Devi praticare, e poi praticare ancora. Quando concentri tutte le tue forze nella fase di preparazione e fai tuo l’oggetto [artistico], sarai in grado di esprimere la tua arte in una maniera più naturale, quale frutto in un certo stato mentale detto “non-mente”.

Lo shizen implica, dunque, in buona sostanza, un agire (umano, e dunque anche poetico) in armonia con la natura, attraverso cui non imporre il proprio sentimento, ma divenire un tutt’uno con la realtà circostante attraverso il wu-wei 無為.

La profondità e mistero (yūgen)

Sull’importanza dello yūgen come principio estetico dello haiku ho già ampiamente parlato in precedenti articoli. A corredo di quanto sinora detto, è possibile aggiungere le parole di Hisamatsu, che nel suo più volte menzionato Zen and the Fine Arts, fornisce la seguente definizione di yūgen:

[Tale principio si sostanzia in] un riverbero senza fine, che nasce da una profondità senza fine, non meglio rivelata. Se il contenuto si esaurisce in sé – se il processo rivelatore termina in un qualsiasi momento – ogni riverbero sarà analogamente limitato. Ma ciò che emerge dalle profondità prive di limiti e non perde mai la propria interezza […] produce un’eco inesprimibile a parole.

Il distacco (datsuzoku)

Il principio del datsuzoku implica una libertà dell’individuo dalle regole, dalle convenzioni, dai vincoli e dalle formule. Come lo Zen non fa capo ad alcuna autorità, ma ciascun praticante diviene maestro di se stesso, così lo haijin 俳人/artista non deve lasciarsi condizionare dalle convenzioni, ma riflettere con spontaneità e naturalezza la realtà che lo circonda, esattamente come uno specchio che, pur riflettendo gli oggetti, non li altera, né li trattiene (Hvass):

Mediante un’intensa pratica ed allenamento, tutti i vincoli e le regole divengono parte naturale dell’essere, consentendo così a ciascuno di raggiungere il livello della “legge senza-legge”. In questo modo, ogni artista diventa un’entità estranea a vincoli e non convenzionale.

La tranquillità (seijaku)

Il seijaku rappresenta semplicemente la tranquillità e l’armonia del sé senza più forma, ossia dell’artista/poeta che, divenuto un tutt’uno con la realtà circostante ed annullata ogni declinazione temporale nel qui e ora, si fa simile all’acqua di uno stagno, immota e imperturbabile.

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