Presente scandinavo

Una lettura della raccolta curata da Antonio Parente, E poi più nulla. Antologia di haiku finlandesi, Novi Ligure, Joker Edizioni, 2015, pp. 74 (Euro 13.00).

E poi più nulla è un’antologia di haiku uscita a inizio anno per i tipi delle Edizioni Joker di Novi Ligure, la quale raccoglie il contributo di ben 25 haijin finlandesi, contributo che, come si legge nella nota iniziale di Antonio Parente (curatore e co-traduttore del libro), intende offrire un omaggio simbolico alla popolazione giapponese colpita dal disastro nucleare di Fukushima, avvenuto l’11 marzo 2011.

Capita (purtroppo) raramente di poter leggere, in Italia, componimenti in forma haiku di poeti stranieri e, quando questo avviene, riguarda perlopiù raccolte di pseudo-haiku di autori ben noti al pubblico internazionale (si pensi a Jack Kerouac, Tomas Tranströmer o Alejandro Jodorowsky) o i quattro classici giapponesi: Bashō, Buson, Issa e Shiki.
Dunque saluto con estremo piacere questa antologia, che ha il pregio di proporre voci poetiche inedite e ricche di spunti critici d’interesse, le quali – inscrivendosi in nel più ampio e noto contesto della poesia scandinava, con haijin del calibro di Jörgen Johansson, Tore Sverredal e Ola Sigvardsson – riesce ad enucleare uno stile proprio, sorprendentemente lucido e presente.

Se da un lato la forma originaria degli scritti pare rispettare, con fisiologiche eccezioni, lo schema classico occidentale in tre versi e diciassette sillabe (con, peraltro, un certo impegno da parte dei traduttori a seguire tale forma anche nella trasposizione in italiano), è nei contenuti che si ravvisa un certo allontanamento dai canoni “tradizionali”, in favore di una visione più intima e personale della realtà.
In continuità con la diffusione del movimento gendai 現代 in Europa e, più in particolare, nell’area nord-orientale del Continente avvenuta negli anni a noi più recenti, questi poeti forniscono al lettore una nuova chiave di accesso alla realtà, popolata non soltanto da entità naturalistiche note – da “fiori e uccelli”, volendoci riferire alla visione del kachofuei 花鳥諷詠 di Takahama Kyoshi – ma anche, e soprattutto, da forme non sedimentabili di impressioni e interpretazioni prettamente umane.

Così, a componimenti marcati da un sentimento stagionale (kikan 季感) decisamente vivo ma mai preconcetto (Il ramo cede/un fiocco dopo l’altro/la neve cade; Arto Lappi), si alternano ricostruzioni dai margini più intimistici, a tratti frutto di una fenomenologia del tutto slegata dalla linearità dello shizen 自然:

Si libra in aria,
l’uccello ha già carpito
ciò che voleva

(Rea Tiirola-Tyni)

I canoni estetici della leggerezza (karumi 軽み) e della della delicatezza (shiori しをり) pur preservando la loro fisionomia, paiono qui abbandonare il rifugio sicuro del makoto 誠, mentre la sottigliezza (hosomi 細身) del linguaggio che penetra la realtà sembra sì suggerire una dimensione di profondità e mistero assimilabile allo yūgen 幽玄, ma accompagnata da una matrice interpretativa che potrebbe erroneamente spingere il lettore a credere nell’esistenza di una risposta. Un inganno, appunto. Poiché anche qui lo haijin, pur volendo conservare intatta la propria ricerca (Ancora in viaggio:/le due stelle e la luna/sarchiano il mare; Helena Sinervo), non osa imporre una direzione alle cose, né tanto meno agli spettatori, che tali rimangono, apparentemente impotenti, ma di fatto più vivi che mai:

Apre la bocca
la notte – noi fuggiamo
dalla sua gola

(Johanna Venho)

E poi più nulla affascina per l’evocatività dei paesaggi poetici e per la varietà di stili proposti ed è la risultante non di un rifiuto preconcetto delle regole classiche, quanto piuttosto di un’attenta ricerca del sé in un contesto naturalistico, che, non di rado, travalica i concetti di kigo 季語 e kidai 季題, dissezionando la forma in cerca di un nuovo angolo visuale.
Come rimarcato da Kai Nieminen nella sua Introduzione, «questo è il modo di relazionarsi alle regole e alla metrica […]: sono semplici strumenti dei quali si può decidere di non far uso, qualora il contenuto li richieda, e nel caso li si conosca a fondo e li si padroneggi con maestria.»

Analogamente a poeti ormai storicizzati come Saito Sanki, Watanabe Hakusen, Tsubouchi Nenten e Kaneko Tohta, anche gli autori presenti in questi antologia dimostrano, dunque, di aver dimestichezza con lo haiku tradizionale, ma vi si allontanano scientemente nella misura in cui le contingenze poetiche lo richiedano, sacrificando forse l’aspetto epidermico delle cose, ma scavando con non minore presenza nel qui e ora, in quello spazio vuoto (ma, 間) ove converge, in ultima istanza, ogni ricostruzione estetica.
La differenza è nel grado di apertura del “suggerito”, in quelle metafore che metafore non sono, ma figurazioni non determinabili a priori, ove il lettore conserva, immutata, quella sua capacità di scorgere la fisionomia degli eventi senza nulla aggiungere al testo.

Qualcuno potrà definirli “poesia”, qualcun altro “allucinazioni”. La verità, come spesso accade, non risiede in nessuno degli estremi, ma nel vuoto che li separa, nel silenzio che precede e segue la parola. Come il senso profondo delle sumi-e 墨絵 non è rinvenibile nei tratti d’inchiostro, ma nel bianco del foglio che vi fa da sfondo, così anche queste opere non rivelano un significato nelle parole, ma lasciano che le stesse s’immergano interamente nello yūgen fin quasi a scomparire, acquisendo maggior valore man mano che, paradossalmente, paiono perderlo.

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