Intervista a Diego Martina

L.C.: Buongiorno, Diego. Grazie, innanzitutto, per aver acconsentito a questa breve intervista. Come prima cosa, vuoi raccontarci chi sei, quali studi hai compiuto e di cosa ti occupi?

D.M.: Grazie a te, Luca. Sono laureato in lingua e letteratura giapponese presso Sapienza – Università di Roma, dove ho conseguito sia la triennale che la specialistica. Come borsista, inoltre, ho studiato per due anni presso l’Università di Tokyo e l’Università delle Lingue Straniere di Tokyo. Mi occupo di poesia giapponese moderna e contemporanea e di poesia haiku, sia in qualità di studioso che di traduttore, ma anche come autore, poiché scrivo e pubblico regolarmente qui in Giappone.

L.C.: Qual è stato il tuo primo contatto con la poesia haiku e quali impressioni questa ti ha dato?

D.M.: Ero in una libreria di Roma, da studente universitario squattrinato. Vagando per gli scaffali mi ero imbattuto in un libro di haiku, naturalmente in traduzione. Iniziai a leggerlo seduta stante, felice di aver rinvenuto un po’ di Giappone tra i volumi impolverati. Della poesia haiku conoscevo poco e niente, all’epoca, e sebbene morissi dalla voglia di saperne di più quel primo incontro fu tutt’altro che idilliaco. Più leggevo quegli haiku in traduzione, più li trovavo brutti nel migliore dei casi, privi di alcun significato nel peggiore. Interruppi la lettura e andai in cerca di altro. Quello fu il primo contatto con la poesia haiku, e tale rimase per molti altri anni a venire.

L.C.: Se la tua idea sullo haiku è cambiata, qual è stata la ragione di tale mutamento?

D.M.: Il giapponese. Mi sono avvicinato davvero allo haiku quando ho iniziato a leggerlo in lingua originale. Adesso dico “leggere”, ma all’inizio era un fare su e giù tra testo originale, dizionario e saijiki. Quella degli haiku è una lingua a parte, e per quanto il mio giapponese fosse buono (anzi, essendo uno studioso di letteratura, potevo senz’altro dirmi nel mio habitat naturale), non riuscivo ugualmente a leggere quelle poesie tanto brevi quanto complesse. Ho dovuto imparare un altro giapponese, diverso da quello che già padroneggiavo. Nel caso degli haiku, raramente la traduzione riesce a rendere giustizia al testo originale. Difatti, gli haiku che avevo letto la prima volta in traduzione mancavano di bellezza, di ritmo, di poesia. C’erano sì le parole, ma mancava lo haiku in sé. Per questo non mi avevano convinto.

L.C.: So che sei discepolo di Momoko Kuroda, nonché membro dell’AOI haiku-kai 藍生俳句会, Associazione fondata dalla stessa Kuroda. Puoi dirci qualcosa di più su di essa?

D.M.: Purtroppo la Maestra Momoko ci ha lasciato da poco, è avvenuto tutto così in fretta che né io né gli altri membri riusciamo ancora a capacitarcene… In Giappone, è consuetudine di ogni maestro fondare un proprio circolo, esattamente come è stato per Momoko Sensei con AOI. Questo tipo di circoli hanno una propria rivista omonima, su cui ogni mese vengono pubblicati gli haiku degli iscritti (accuratamente selezionati e, talvolta, commentati dal maestro), interviste, articoli redatti dal maestro, dagli iscritti, oppure da personalità esterne al circolo. Anche AOI funziona così. In qualità di membro ho scritto su AOI per più di due anni.

L.C.: Momoko Kuroda è stata una figura estremamente nota in Giappone. Tuttavia, anche in Italia, quando si parla di haiku, il suo nome ricorre sovente. Ci puoi parlare brevemente di lei? Che tipo di rapporto la legava ai vari membri di AOI, e a te in particolar modo?

D.M.: Momoko Sensei era discepola di Yamaguchi Seison, che era discepolo di Takahama Kyoshi, che come sai era a sua volta discepolo di Masaoka Shiki. Una linea diretta tra passato e presente, tradizione e modernità. Dico “modernità” perché sebbene quella della Maestra fosse di base una voce “antica”, forte appunto della tradizione, respirava e odorava di novità, tanto che nel 2020 è stata insignita del Premio Haiku Moderno. Io sono stato suo discepolo per quattro anni, un tempo tanto breve quanto intenso. Ricevevo le sue chiamate a qualsiasi ora del giorno e della notte, talvolta per invitarmi a qualche evento, il più delle volte per comunicarmi subito e a voce quanto avesse apprezzato ora un mio ku, ora un mio articolo. Mi ha spinto a fare sempre del mio meglio, a non accontentarmi di versi posticci ma di andare alla ricerca della mia propria voce interiore. Mi manca davvero molto.

L.C.: Dal tuo punto di vista, come viene percepito lo haiku in lingua straniera (e, più nello specifico, in italiano) all’interno dei circoli letterari giapponesi?

D.M.: Tralascio il mio personale punto di vista a vantaggio di quello dei giapponesi miei conoscenti, persone che compongono haiku nel proprio idioma e che, di pari passo, leggono anche quelli in inglese. Il loro punto di vista, unanime, è che gli haiku scritti in una lingua straniera non siano haiku. In una mia passata intervista anche la Maestra Kuroda aveva espresso un punto di vista simile, affermando che “esistono gli 俳句 (“haiku” in lingua giapponese) e gli HAIKU (volutamente in alfabeto)”. I motivi alla base di questo giudizio sono molteplici, dovuti non tanto alla forma (computo delle sillabe, kigo, etc.) quanto alla sostanza, al gusto, all’estetica. Ovviamente, i giapponesi sono felici di vedere che la poesia haiku sia così amata anche all’estero. Solo, come ha sottolineato anche la Sensei, il giudizio all’atto della sostanza è differente. Ne deriva che, nei circoli giapponesi, lo haiku in lingua straniera è una materia – se e quando presente – abbastanza marginale. Haiku in lingua italiana compresi.

L.C.: Quale ritieni sia lo stato della poesia haiku in Italia e quali sviluppi sarebbe auspicabile avvenissero?

D.M.: L’idea che mi sono fatto è che in Italia (ma non solo) vi sia molta confusione in merito allo haiku. Parole come “bambino” non possono diventare kigo, non possono (e moralmente non dovrebbero) esistere artifici quali i “piccoli kigo”, e via discorrendo. Ma più che la forma è la sostanza a dover, a mio avviso, essere riordinata. E per farlo bisognerebbe avere a disposizione molti più testi e autori tradotti direttamente dal giapponese, con traduzioni accurate effettuate da studiosi esperti della lingua e della materia. Comunque, da “outsider” (leggo e compongo principalmente in lingua giapponese, qui a Tokyo), non so pronunciarmi nel dettaglio su quali sviluppi sarebbero auspicabili.

L.C.: Quali progetti letterari hai nell’immediato futuro?

D.M.: Lo dico qui in anteprima: in aprile uscirà un mio nuovo volume di haiku tradotti, ma questa volta, dopo le traduzioni di Soseki e della Maestra Momoko, ho preferito optare per un autore di haiku moderni piuttosto che proseguire sul solco della tradizione. Ogni tanto fa bene (ed è utile) spaziare. Sono al lavoro anche sulla traduzione di un altro volume di poesia moderna giapponese, sperando di darlo alle stampe entro la fine dell’anno. Sul versante della scrittura, invece, porto avanti la stesura della mia seconda raccolta di poesie in giapponese, di un saggio, e di un romanzo.

L.C.: Ti rinnovo i miei ringraziamenti per il tempo dedicato a questa intervista. Hai qualche suggerimento finale da lasciare ai lettori e a chi si avvicina allo haiku per la prima volta?

D.M.: Certo: consiglio di imparare il giapponese! (ride) No, sto dicendo davvero! (ride di nuovo). Un altro consiglio – meno impegnativo – che posso dare è di non prestare orecchio ai guru della materia e di ricordare sempre che più si parla di poesia e meno la si fa.
Grazie a te per questa intervista, Luca.

L.C.: Se ti va, puoi condividere con noi due-tre tuoi haiku?

D.M.:

Dove al silenzio
va incontro altro silenzio –
compro un diario

Ombre cinesi
sui muri dell’infanzia –
vento d’autunno

In mezzo al nulla
circondati dal niente
campi fioriti

Visto che siamo nella stagione dei ciliegi, permettimi di condividere con i tuoi lettori anche questo ku di Momoko Sensei:

Sotto l’albero
il ricordo di petali
di mille anni

Una risposta a “Intervista a Diego Martina”

  1. Grazie Luca per questo contributo, mi ha colpito particolarmente l’affermazione che “più si parla di poesia, meno la si fa”.

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