Ombre pulviscolari

Recensione della raccolta di haiku Auschwitz e simili di Toni Piccini (Red Moon Press, 2018, pp. 110, $ 20,00 – o € 15,00 se richiesto all’autore).

Auschwitz e simili è l’ultima raccolta di haiku di Toni Piccini, edita dalla Red Moon Press di Jim Kacian in quadruplice lingua (italiano, inglese, ebraico e tedesco); l’opera segue di quattro anni l’uscita di No Password (Terra d’Ulivi, 2014), inanellandosi stilisticamente a quest’ultima ma distanziandovisi, al contempo, significativamente per la complessità e delicatezza delle tematiche affrontate, ossia la vita (o, meglio, la morte) nei campi di concentramento nazisti.
«Vi sono immagini figlie della mia penna […] ed altre connesse a realtà storicamente documentate», precisa l’autore nella sua Introduzione, evidenziando peraltro la presenza di (poche ma essenziali) note a piè di libro che accompagnano il lettore in questo cammino di verità terribile ma necessario.
«Questo solo è negato a Dio: disfare il passato», sosteneva Aristotele, il che implica un’assunzione di responsabilità collettiva per gli orrori consumatisi tra le mura di Auschwitz, sia da parte di chi ha effettivamente agito che da chi, silente e inerte, ha tollerato tali atrocità; ma un’assunzione di responsabilità deve venire dall’interna specie umana, tanto dalle generazioni passate quanto da quelle presenti, responsabilità che implica in primis l’onere della conservazione storica delle vicende riportate nel libro, affinché i nostri figli, memori di tali ignominiosità, possano costruire un mondo migliore.
L’opera consta di 84 haiku, redatti dal Piccini secondo un ormai noto modello stilistico aperto ed essenziale, nel quale la forma espressiva (sugata 姿) si rimodella in base all’ampiezza di respiro delle vicende narrate, sostanziando un’evidente prossimità con i jiyūritsu haiku 自由律俳句 (“haiku a ritmo libero”) di Hekigodō; è la parola in sé, dunque, ad assumere sfericità e centralità all’interno dell’opera, analogamente a come avviene per un altro grande autore nel panorama haiku internazionale, ossia Ban’ya Natsuishi (cfr. il concetto poetico di keywords).
Ma al di là di ogni aderenza ed analogia, Auschwitz e simili si presenta al lettore come una raccolta decisamente unica; unica, come già accennato, per le tematiche ivi racchiuse, ma altrettanto unica per la libertà con la quale il linguaggio si muove sulla pagina (tsuzukegara 続けがら), variando fisicamente forma e consistenza ad ogni componimento ed esaltando, in più di un’occasione, il bianco (shiromi 白み) della pagina stessa, che a tratti è parso a chi scrive terribilmente simile al candore delle ossa.
Difficile rinvenire un “archetipo costruttivo” all’interno del libro: lo stacco (kire 切れ) che separa i due momenti nelle opere che presentano una giustapposizione (toriawase 取り合わせ) è “fluido”, così come fluida è la sua resa grafica, che a seconda dei casi assume la fisionomia della lineetta (“–”), della virgola e dei due punti.
Allo stesso modo, il riferimento stagionale (kigo 季語) compare solo laddove la sua funzione non si riduce a mera ricognizione di elemento “della tradizione”, ma favorisce il veicolare di una scena che resta necessariamente ed irreversibilmente umana, esaltandola o rinforzandola:

partigiani impiccati:
papaveri freschi circondano
il lager

L’autore possiede una solida conoscenza dei classici giapponesi, e di questo ne dà evidenza anche all’interno di questa raccolta, recuperando la loro dimensione atemporale (fueki 不易) per rinforzarne il messaggio e producendo, così, una forma di honkadori 本歌取り particolarmente efficace verso la seconda metà del libro:

gocce di rugiada:
in ognuna un riflesso
di capelli tagliati

opera che rimanda espressamente e volutamente a un altro celebre haiku di Kobayashi Issa (1763-1828):

露の玉一ッ一ッに古郷あり
tsuyu no tama hitotsu hitotsu ni furusato ari

gocce di rugiada –
in ognuna si vede
il mio villaggio

La partecipazione emotiva (kokoro ni kaku 心にかく) del lettore viene enfatizzata, qui come peraltro nella totalità dei componimenti, mediante l’impiego di un linguaggio semplice, immediato e mai pretestuoso, segno tangibile di un’idea di verità (makoto 誠 , letteralmente “parola vera”) che non ha bisogno di essere rivestita di un’autorevolezza fittizia e lessicale.
Laddove la scena richiede ex se di una precisazione storica o di un collegamento ad antefatti, il Piccini rimanda alle note a fine libro, peraltro anch’esse ridotte allo stretto necessario:

miniere –
occhi e teschi completano
collezioni differenti

Lo scritto, che in assenza di una corretta contestualizzazione perderebbe gran parte del proprio radicamento storico, infatti, viene collegato a una nota esplicativa che precisa come «queste parti del corpo vennero prese durante esperimenti medici effettuati ad Auschwitz e altri lager», mutando completamente non soltanto la prospettiva scenica, ma essenzialmente la stessa percezione che di tale componimento ha un qualsiasi lettore, pur lasciando inalterata una dimensione di inesplicabile e indicibile (emoiwazu えも言はず).
Tra le principali direttrici che informano la raccolta nel suo complesso vi sono senz’altro una carica “fragile ed effimera” (shiori しをり) e un acume narrativo che, nella sua sottigliezza (hosomi 細身) riesce a cogliere dettagli e sfumature altrimenti inesprimibili, come nell’opera che segue:

turbinio di foglie
nel vento – un oroscopo
oltre il vetro

Volendo recuperare il filo critico e riassumere brevemente gli esiti letterari della raccolta, possiamo senz’altro affermare che Auschwitz e simili si presenta nell’attuale panorama haiku italiano quale opera di grande innovazione e respiro, sia a livello stilistico-formale (nella sua rottura con il modello yūki teikei 有季定型“tradizionale”) che soprattutto contenutistico; una raccolta ben curata anche a livello tipografico-editoriale che non deluderà le aspettative di chi cerca un punto di continuità qualitativo con le precedenti raccolte del Piccini e, al contempo, una serie di approfondimenti storici (bibliograficamente attendibili) su uno dei periodi più bui dell’umanità.
Un plauso va, ovviamente, infine all’ottimo lavoro di traduzione svolto da Jim Kacian (inglese), Zinovy Vayman (ebraico) e Dietmar Tauchner (tedesco), tutti esponenti di rilievo nel panorama haiku internazionale che – ciascuno per la propria area linguistica di competenza – hanno saputo conservare il senso originale delle opere, aggiungendovi tuttavia una componente umana e generazionale che rimanda, senza eccessivo sforzo di immaginazione, agli attori sociali di quell’epoca.
Al lettore spetta ora la decisione se salire su questo treno – costellato sì di terribili ed irreversibili vicende, ma anche di implicite forme di riscatto – o se rinunciare scientemente al rilancio, nella consapevolezza che «la memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda; la memoria è un presente che non finisce mai di passare» (Octavio Paz):

giostre con cavallini
di vapore – i bambini
sono finiti

candele di paglia:
una veloce Pasqua ebraica
fra i fari notturni