L’onomatopea nella poesia haiku

Nello haiku tradizionale è piuttosto facile imbattersi in componimenti che fanno uso dell’onomatopea. Quest’ultima – anche detta fonosimbolo – consiste, com’è noto, in elementi lessicali (cioè parole o gruppi di parole) volti a riprodurre foneticamente un dato elemento o azione (ad esempio, tic-tac, bau bau).
Reginald Horace Blyth (1898-1964), nel primo volume della sua opera magna intitolata semplicemente Haiku¹, parla proprio del ricorso all’onomatopea da parte di grandi maestri del passato, distinguendo tra tre macro-categorie:

          1. parole che rappresentano in maniera diretta un suono mediante l’uso della voce (ad esempio ‘caw caw’ かーかー, ossia il gracchiare del corvo);
          2. parole che rappresentano un dato movimento od altra sensazione fisica diversa dal suono (ad esempio, ‘uro-uro’ うろうろ, cioè il vagare frenetico di chi è agitato);
          3. parole che rappresentano stati d’animo o moti psicologici od emotivi (ad esempio, ‘moya-moya’ もやもや, cioè il rimuginare su qualcosa).

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Il chūkangire: quando lo stacco cade all’interno di un verso di uno haiku

Approfondimento a cura di Antonio Sacco

In questo breve scritto vorrei porre attenzione su di un particolare aspetto del kireji (切れ字, letteralmente “carattere che taglia”) ossia una parola, intraducibile, che indica uno stacco (kire, 切れ), un intervallo (ma, 間) e che nella lingua giapponese viene reso appunto attraverso particolari categorie di parole (chiamate “cenemi”, che nella linguistica contemporanea sono rappresentati da elementi privi di un significato intrinseco) non direttamente traducibili in italiano, come ya や, kana かな e keri けり. Lo stacco è reso in italiano attraverso l’uso dei segni interpuntivi (trattino, due punti, virgola, ecc.) che dividono il componimento in due emistichi e rendono più visibile la toriawase, il collegamento tra due immagini diverse in uno stesso componimento haiku.
Di solito, negli haiku in lingua italiana, siamo abituati a porre la pausa, la cesura alla fine del kamigo (primo verso di uno haiku) o del nakashichi (secondo verso) secondo questo schema:

v. 1: prima immagine (stacco)
vv. 2-3: seconda immagine

oppure:

vv. 1-2: prima immagine (stacco)
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Lo haiku in Italia

È possibile parlare di “haiku italiani”? La domanda, apparentemente scontata, solleva da sempre, in verità, diverse questioni, relative principalmente alle divergenze culturali che separano il Giappone (terra di origine dello haiku) e, appunto, l’Italia. Io stesso, durante le varie conferenze e presentazioni svolte in questi anni, ho ricevuto le più varie obiezioni, tutte riducibili sostanzialmente all’impossibilità di far aderire completamente ed esattamente lo haiku tradizionale giapponese a quello nostrano.

Le complessità, invero, esistono e sono evidenti. Innanzitutto a livello formale, laddove lo “stacco” (kire 切れ) che solitamente divide l’opera in due parti, viene generalmente reso in Giappone mediante ricorso ai kireji 切れ字, letteralmente “caratteri che tagliano”. Non si tratta, come in occidente, di segni di punteggiatura (lineetta, virgola, due punti, ecc.), quanto di veri e propri termini che contano nell’economia metrica complessiva dello scritto, essendo ricompresi nel computo “sillabico” (ya や conta infatti un on, kana かな due, e così via) e che conferiscono, al contempo, una certa aulicità all’opera. Leggi tutto “Lo haiku in Italia”

Armonie stagionali

Breve ricognizione sul dualismo stagionale all’interno dello haiku.

Il riferimento stagionale o kigo 季語 (letteralmente, ‘parola della stagione’) è, lo sappiamo, uno degli elementi principali dello haiku tradizionale, storicamente già presente nella strofa d’esordio (hokku 発句) della renga 連歌 (‘poesia legata’ o “a catena”), fungendo da “saluto stagionale” (kisetsu no goaisatsu 季節のご挨拶) al consesso dei partecipanti.
La presenza di tale riferimento stabilisce peraltro un legame tra percipiente (l’individuo-poeta) e percepito (il contesto naturalistico) che travalica il binomio soggetto-oggetto, operando piuttosto una reciproca compenetrazione e comprensione, anche storico-culturale, che nello haiku giapponese trova la massima espressione nel concetto di hon’i 本意 (honto no imi 本当の意味, ossia ‘significato vero’).

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Lo haiku in lingua inglese

Le principali linee guida per la composizione di uno haiku,
a cura di Michael Smeer (My Haiku Pond Academy)

Il suggerimento per la composizione di uno hokku da parte di Matsuo Bashō (1644-1694), il grande haijin giapponese, era: «impara le regole e poi dimenticatene.» Anche questa affermazione può essere letta in diversi modi. Io credo che Bashō intendesse dire: non farti ingabbiare da regole/linee guida, ma scrivi haiku in maniera naturale ed immediata. Le linee guida/tecniche dovrebbero passare in secondo piano. Sono appunto “linee guida”, non prescrizioni di legge.

Lo hokku è stato il predecessore dello haiku; era, in particolare, la prima parte (di 17 on) della renga, la quale veniva composta da diversi poeti durante incontri sociali. Lo hokku venne reso celebre, come forma poetica a se stante, da Matsuo Bashō e dai poeti della sua epoca, nella metà del XVII secolo. Masaoka Shiki lo ha poi modernizzato, introducendo il concetto di shasei (“spaccati [della natura”) e adottando regolarmente il termine haiku intorno al 1890. Leggi tutto “Lo haiku in lingua inglese”

Le diverse modalità di approccio di fronte alla morte attraverso la poesia in Oriente e in Occidente

Approfondimento a cura di Antonio Sacco

In questo intervento si prende in esame come l’Oriente e l’Occidente si siano rapportati alla morte attraverso la poesia. Vengono presi in esame i jisei giapponesi e i sijo coreani per l’Oriente e l’epitaffio, l’elegia latina e i versi liberi per l’Occidente. Dallo studio di tali componimenti emergerà una chiara visione della concezione orientale della morte, influenzata dal buddhismo Zen e dal taoismo, e della concezione occidentale del fine vita. Tenteremo di dare risposta al quesito “può la poesia aiutarci nel momento del trapasso?”, tenendo in mente che, nonostante sia un momento estremamente delicato e intimo, dalle poesie di addio al mondo possono emergere – trasversalmente da Oriente ad Occidente – i più disparati stati d’animo perché, nella sua essenza, l’essere umano è mosso dagli stessi moti interiori innanzi all’ultimo atto della propria vita.

un nuovo autunno –
nascono altri colori
da foglie morte

Antonio Sacco Leggi tutto “Le diverse modalità di approccio di fronte alla morte attraverso la poesia in Oriente e in Occidente”

Gli haiku e i kōan zen, di Antonio Sacco

Una proposta di relazione tra poesia haiku e pensiero zen, già pubblicata in lingua inglese su «Frogpond» Vol. 41:2 (estate 2018) con il titolo The Haiku and The Koan Zen.

Prendiamo qui in esame la relazione tra poesia haiku e kōan zen. Iniziamo ad analizzare come lo haijin si pone rispetto ad un oggetto, successivamente definiremo che cosa sono i kōan zen e in che misura essi si relazionano con gli haiku.
Un buon haiku deve essere un mezzo di meditazione per arrivare alla verità fondamentale; infatti chi compone un haiku non guarda ad un oggetto ma osserva come quell’oggetto. In altri termini, lo haijin si immedesima talmente tanto in un determinato oggetto da annullare la distinzione soggetto/oggetto.
Il poeta non deve descrivere ciò che vede, ma essere, in quel momento, ciò che descrive.
Lo haijin deve conseguire uno stato di “identificazione” così stretta con l’oggetto da annullare il proprio pensiero logico; quanto più uno haiku è profondo, tanto più esso rende l’idea di tale processo. Leggi tutto “Gli haiku e i kōan zen, di Antonio Sacco”

Il concetto di spazio o “ma”

Principio determinante nella comprensione dell’arte giapponese in generale e, dunque, dello haiku 俳句 è quello dello “spazio” o ma 間. Esso identifica, più in particolare, quell’intervallo che, pur separando due elementi, in qualche modo li unisce, essendo indissolubilmente legato ad entrambi. Così, ad esempio, nell’esperienza poetica dello haiku, l’individuo-poeta (lo haijin 俳人) e la realtà circostante sono entità apparentemente distinte, ma che si riducono, in ultima istanza, ad unità nell’inespresso, in quella bellezza naturale che può essere colta solo attraverso l’interazione stessa tra uomo e natura e che trova il proprio fondamento estetico nell’intuizione e nel suggerito. Scrive, in merito, Richard Gilbert:

L’essenza reale del “ma” non può essere codificata con precisione, poiché “ma” non è né una cosa o un oggetto, né una singola qualità, quanto piuttosto l’esperienza di una psicologica inter-esistenza [betweenness, N.d.T.] che si realizza nella tecnica del kire [il “taglio” operato dai kireji](1). Leggi tutto “Il concetto di spazio o “ma””

Il fascino acerbo delle parole

Breve ricognizione sull’estetica dello shibui nella poesia haiku.

Termine fondamentale nella ricostruzione dell’estetica giapponese è lo shibui 渋い. Forma aggettivale del sostantivo shibusa 渋さ, letteralmente “austerità” o, più probabilmente, di shibumi 渋み (“astringenza”), esso affonda le proprie radici nella poetica del Periodo Muromachi (1333-1568), indicando, essenzialmente, tutto ciò che è asciutto o “astringente”, in contrapposizione a ciò che è amai 甘い, ossia “dolce”.
Sebbene la trattatistica in materia di poesia haiku tenda a focalizzare l’attenzione del lettore su altri principi estetici (principalmente il wabi 侘, il sabi 寂, il mono no aware 物の哀れ e lo yūgen), merita di essere evidenziato come anche lo shibui, con il suo fascino acerbo, discreto ed essenziale, abbia contributo in misura non trascurabile a ridefinire i contorni di un genere – lo haiku appunto – che fonda il proprio fascino sulla semplicità ed immediatezza di espressione, ossia sulla capacità, da parte dello haijin 俳人, di saper cogliere la realtà nel momento stesso in cui questa si manifesta, attraverso un procedimento di “quiescienza della mente” che non significa ablazione del sé, ma, ad un livello più profondo, riscoperta del sapore autentico dello spirito (kokoro no aji 心の味)¹ latente in ogni cosa, nel qui e ora naturalistico. Leggi tutto “Il fascino acerbo delle parole”

L’intima connessione delle cose

Riflessioni sul libro Aware. Storia semantica di un termine nella poesia giapponese classica di Chiara Ghidini, M. D’Auria Editore, 2012, pp. 120, Euro 18,00.

In questo breve ma lucido saggio, Chiara Ghidini, docente in Lingua e letteratura giapponese presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, nonché autrice dello studio intitolato Aware nel Kokinwakashū: Traduzione poetica e poetica della traduzione del 1995, scandaglia con rigore accademico ma, al contempo, con un linguaggio equilibrato e lineare, l’etimologia e la storia semantica di uno dei termini più ricorrenti nell’estetica letteraria giapponese, ossia aware 哀れ.
La disamina trova, invero, uno specifico approfondimento solo a partire dalla seconda sezione del libro (pp. 41-95), poiché nella prima la Ghidini rimarca (a mio avviso, doverosamente) una premessa esegetica essenziale, ossia la necessità di adottare un approccio alla traduzione di un qualsivoglia testo (specie poetico) in lingua straniera quanto più possibile fedele non solo alla lettera, ma anche allo spirito di quest’ultima: «essere fedeli alla poesia significa percepirne l’essenziale, o ciò che la rende tale, riconoscere nell’atto del tradurre l’instaurarsi di un rapporto tra lingua e lingua, ma anche tra testo e testo, tra visioni del mondo compatibili se pur differentiLeggi tutto “L’intima connessione delle cose”